Articolo apparso nel novembre 2013 sul blog di Punto.Ponte
Cesare Marino è un antropologo del famoso e prestigioso Smithsonian Institution di Washington, DC negli Stati Uniti e uno dei più grandi esperti della cultura dei nativi americani meglio conosciuti come indiani d’America. Sono certo che leggendo queste parole, il mio caro amico Cesare penserà che il titolo di esperto che gli ho assegnato non descrive al meglio la sua profonda relazione con la cultura indiana. Infatti, Cesare è molto più di un esperto, è anche un sincero appassionato, conoscitore e grande amante della cultura indiana. Una passione tanto profonda che è stato adottato come membro a pieno titolo della comunità dei nativi americani. Parlare con Cesare del mondo dei nativi Americani è sempre affascinante, un’esperienza che vorrei condividere online con questa intervista. Rimango sempre sbalordito dalla sua profonda conoscenza e contagiato dal sincero amore per il mondo degli indiani d’America. Un mondo che molti di noi conoscono solo per immagini stereotipate. Ho tratto grande piacere e interesse nell’ascoltare le risposte di Cesare alle mie domande e sono certo che sarà lo stesso anche per voi. Buona lettura a tutti e un sincero grazie a Cesare!
Cesare non solo è un grande esperto della cultura dei nativi americani ma anche un sincero appassionato di questa cultura. Una passione tanto profonda che è stato adottato come membro a pieno titolo della comunità dei nativi americani.
L’intervista a Cesare Marino
Franco: Ciao Cesare. Ci racconti brevemente come sei entrato in contatto con la cultura dei nativi americani?
Cesare: Ciao Franco, o come direbbero i Sioux, hau kola! “ciao amico!”, saluto in lingua Lakota che estendo anche all’associazione Punto.Ponte. Prima di rispondere alle tue domande, devo fare una breve premessa che scaturisce da oltre trent’anni di studio e di esperienza diretta con i nativi nordamericani. La storia millenaria, le culture e le diverse realtà attuali degli indiani d’America – termine che comprende sia gli American Indians degli Stati Uniti che gli Aboriginal Peoples del Canada – presentano un quadro estremamente complesso e variegato; sarebbe quindi presuntuoso da parte mia pretendere di poter sintetizzare in poche risposte tale diversità. Basti pensare che ci sono oggi negli Stati Uniti oltre 560 cosiddette ‘entità tribali’ (Indian Nations, Tribes, Pueblos, Alaska Native Villages) riconosciute dal governo federale, a cui vanno aggiunti gruppi “misti” riconosciuti solo da alcuni singoli Stati dell’Unione, per una popolazione complessiva intorno ai quattro milioni di indiani. Circa la metà risiede in 300 reservations, gli altri nei centri urbani. In Canada, la popolazione nativa (Indians, Métis, Inuit) si aggira intorno al milione e mezzo, con oltre 50 nazioni indiane suddivise in 600 Indian Bands e oltre 2,500 reserves. Ci sono tribù divenute ricche grazie agli introiti dei loro casinò, come i Seminole della Florida che alcuni anni fa hanno acquistato per 965 milioni di dollari la catena Hard Rock Café, altre invece che vivono in grande povertà, come nel caso tristemente noto degli Oglala (Sioux) di Pine Ridge nel Sud Dakota. Ci sono tribù presso le quali la lingua nativa è ancora parlata, ad esempio i succitati Sioux, gli Cheyenne del Montana, i Navajo e gli Hopi dell’Arizona e altre ancora, mentre quelle dove essa si è ormai estinta, vedi i Catawba della Carolina del Nord, i Quapaw dell’Oklahoma e così via. Le mie risposte dovranno quindi essere, in questa sede, molto generiche e necessariamente riduttive; ma con l’augurio di poterle semmai approfondire un giorno di persona con te e con gli amici di Punto.Ponte.
Venendo alla tua domanda, il mio interesse per gli indiani è scaturito da una sintesi di circostanze familiari e di successive scelte personali le cui radici affondano nella mia infanzia e adolescenza. Circostanze inizialmente difficili per un bambino, a partire dal trasferimento in età prescolare dalla natia Sicilia al Trentino, dove ho trascorso diversi anni. Dal mare blu e le spiagge dorate del Mediterraneo ai boschi e le nevi immacolate delle Alpi, da allora sempre amate. Ma anche, per dirla schiettamente, il ritrovarmi “terón” e mingherlino come’ero tra i biondi trentini. Inevitabile quindi che quando si giocava a cowboy e indiani a me toccasse sempre quest’ultima parte. Erano gli anni Cinquanta, la tivù in bianco e nero con RinTinTin, poi la domenica pomeriggio al cinema dell’oratorio con i film western e gli indiani ritratti regolarmente nel ruolo dei “cattivi” e dei perdenti. A me invece, un po’ istintivamente un po’ per solidarietà, gl’indiani ispiravano già da allora molta simpatia, l’empatia delle minoranze e degli underdogs, si direbbe. E c’era poi mio padre, all’epoca giovane medico militare, amante della Natura, appassionato di canoa e fedele lettore di Tex; fu lui a costruirmi il mio primo arco “indiano” a doppia ansa.
La svolta in “nostro” favore avviene durante gli anni del liceo che coincidono con il nuovo corso hollywoodiano, finalmente “dalla parte degli indiani” con i film Soldato Blu, Piccolo Grande Uomo, Un uomo chiamato cavallo, e il più moderno Billy Jack, tutti visti e rivisti. E poi i classici della nuova letteratura anch’essa pro-indiana, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee (la mia recensione), La sacra pipa, Alce Nero parla, letti e riletti. Il mio primo incontro diretto “sul campo” con la cultura indiana risale invece all’estate dell’oramai lontano 1976, anno del Bicentenario americano. Assolti gli obblighi di leva, una volta si diceva fatta la naja, mi imbarco su un volo charter diretto a New York. Superato il primo impatto con la Grande Mela, riparto per un lungo “Coast to Coast” su un bus Greyhound; ho in tasca l’edizione italiana Sulla strada di Jack Kerouac e in originale Fighting Indians of the West di Dee Brown.
Dalla California vado in Arizona per la mia prima tappa obbligatoria, i Navajo, omaggio al mitico Tex. La realtà che ho davanti è ancora più bella e affascinante di quanto avessi potuto immaginare. Magica, travolgente Navajoland, Dinetah, con i suoi spazi, i suoi colori, i suoi silenzi, i vecchi indiani dai volti incartapecoriti e i vestiti variopinti, e sullo sfondo l’altrettanto mitica Monument Valley. Tante le cose che mi colpirono durante questa prima esperienza indiana, ma una in particolare mi è rimasta profondamente impressa: c’erano dei vecchi Navajo seduti su una panca fuori dal trading post, con i loro cappelli da cowboy e i tipici bracciali d’argento e turchese. Indossavano anche – come si usa ancora nel West– stivali anch’essi da cowboy ai quali però mancavano regolarmente a tutti i grossi tacchi. La cosa mi incuriosì e chiesi spiegazione al tizio dietro al bancone che mi aveva venduto alcuni souvenir. Mi rispose distrattamente che era una consuetudine dei Navajo di più vecchia generazione: rimuovevano i tacchi perchè, essendo duri, camminando avrebbero “fatto male” alla Madre Terra.
Franco: Quali sono le principali differenze tra il loro e il nostro sistema di valori?
Cesare: Fermo restando quanto detto all’inizio, è pur vero che alla varietà di lingue, culture e tradizioni delle diverse tribù, corrisponde anche una comune visione indiana dell’essere e del mondo e un relativo sistema di valori largamente condivisi. Valori fondamentali, diversi dai nostri, se non addirittura antitetici. Prendendo lo spunto dal ricordo dei vecchi Navajo cui sopra, innanzitutto c’è da dire che è diffusa tra gli indiani la consapevolezza di essere parte integrante di un mondo naturale che nella sua ricchezza e varietà è manifestazione tangibile di un più grande potere sovrannaturale, misterioso che pervade tutte le cose: i Sioux lo chiamano Wakan Tanka, gli Ojibwe Gitche Manido, gli Irochesi Orenda; stesso concetto, reso in italiano ‘Grande Spirito’. Il mondo che noi occidentali definiamo materiale è per gli indiani pervaso da spiritualità. Di qui una serie di valori che si ispirano alla dualità, complementarità, interdipendenza, armonia e religiosità della Natura, che è viva e si rinnova nella sua costante alternanza, nei suoi ritmi, nei suoi cicli. Per gli indiani d’America è di fondamentale importanza rispettare e mantenere questo equilibrio, questa armonia rigenerante nell’interazione tra mondo naturale e sovrannaturale; e parimenti all’interno della stessa comunità tribale. Armonia ed equilibrio che si salvaguardano e si rigenerano con riti e cerimonie, e con l’aderenza di ciascun membro della tribù ai valori di generosità, reciprocità, ridistribuzione, fedeltà, rispetto per le tradizioni. E c’è anche, parallelamente, la consapevolezza che ogni azione si ripercuote sul futuro delle prossime sette generazioni.

Il gruppo, una serie di cerchi concentrici che vanno dalla famiglia estesa al clan, al villaggio e alla tribù, assume importanza prioritaria rispetto all’individuo, la cui identità si estrinseca attraverso l‘appartenenza ad esso e tramite la conformità ai valori cui sopra. Per i Navajo ciò significa to walk in beauty, camminare in bellezza (intesa ovviamente al di là del mero senso estetico); i Cherokee si ispirano alla harmony ethic, l’etica dell’armonia; i Sioux parlano di Čanku Luta, la ‘strada rossa’ che ciascun membro della tribù deve seguire per essere un vero Lakota. Facendo il raffronto tra il modo di pensare dei bianchi e quello degli indiani, il mio compianto amico Clarence Curly Bear della tribù Blackfeet (Piedineri) del Montana mi disse una volta che mentre i primi non fanno altro che discutere di “teorie” e vagano spesso nel “buio interiore” – vedi l’attuale confusione e scardinamento di valori — gli indiani di orientamento tradizionale si ispirano invece a “certezze” che, tramandate dai loro anziani di generazione in generazione, offrono chiarezza e punti sicuri di riferimento sulla cui validità c’è ben poco da discutere. Il sapere dell’uomo bianco, seppur così tecnologicamente avanzato, è spiritualmente povero, sterile, contaddittorio: out of balance, dicono gli Hopi. La mente dei bianchi assomiglia a tante scatole chiuse, disconnesse tra loro: si parla di “sacro” e “profano” come di due realtà distinte e separate. Gli indiani, invece, guardano all’interdipendenza dell’esperienza umana nella sua totalità, all’importanza dei valori nella loro completezza e considerano il cuore – non la mente e il cervello – la fonte del pensiero, oltre che delle emozioni. Il cuore è il primo organo che si forma; batte all’unisono con la Natura e come il suono ritmato del tamburo esso riflette il pulsare della Terra che è Madre. I Lakota usano spesso l’espressione mitakuye oyasin, “all my relations”, in riferimento a questa interrelazione, pulsazione e circolarità della vita, nell’accezione più ampia del termine. Analogamente, spiegava ancora Curly Bear, mentre il cammino dell’uomo bianco è come una lunga linea retta di cui non si conosce bene nè l’inizio nè tanto meno la fine, il sentiero degli indiani traccia invece un grande cerchio, che è sacro, il Sacred Hoop; esso trae origine dal Creatore, si ricongiunge ad esso e ci ricollega a tutto ciò che ci circonda, visibile e invisibile. Concludendo, la cultura indiana non si riconosce nella scala dei valori dell’uomo moderno occidentale che valuta il superfluo più dell’essenziale, l’apparenza più della sostanza, il tornaconto individuale più del bene comune, la cupidigia più della generosità, la falsità più della sincerità.
Franco: Cosa ti ha affascinato maggiormente di questa cultura?
Cesare: Sono molte le cose che mi affascinano e che condivido della cultura indiana, in particolare la loro visione del mondo, i loro valori sopra enunciati. Un altro aspetto che mi ha colpito di questo Popolo è l’attaccamento alla sua identità e tradizioni; la tenacia e la determinazione con cui essi cercano di salvaguardare la loro cultura e trasmetterla alle giovani generazioni — oggi così soggette al bombardamento mediatico del mondo occidentale e all’omologazione culturale della globalizzazione – unitamente ai valori di cui abbiamo detto. Un secolo fa, quando la popolazone indiana raggiunse i minimi storici, l’uomo bianco era convinto che gli indiani sarebbero ben presto scomparsi del tutto. Un famoso fotografo americano, Edward S. Curtis, volle documentare le culture indiane prima che fosse troppo tardi. Trascorse anni scattando migliaia di fotografie delle tribù “sopravvissute” perchè anche lui riteneva che gli indiani rappresentassero irrimediabilmente una vanishing race, una “razza” in via di estinzione. Associandoli alla fine dell’epopea del West, o come scriveva in quegli stessi anni lo storico Frederick Turner, alla scomparsa della frontiera che era stato elemento forgiante dell’identità americana, il destino degli indiani era inevitable, alla stregua dei bisonti, una volta numerosissimi e anch’essi sull’orlo dell’oblio. Ma l’uomo bianco, con le sue ‘teorie’ catastrofiste fondate sul darwinismo storico e sociale, ancora una volta si era sbagliato. I bisonti oggi stanno tornando, nelle riserve si insegnano le lingue e le tradizioni tribali, gli indiani stanno riscoprendo l’orgoglio della loro identità e, seppur tra mille difficoltà, essi stanno riaffermando il loro diritto alla sovranità e all’autodeterminazione, ad essere indiani insomma.
Franco: Quanto è irrimediabilmente andato perduto e quanto è invece ancora vivo di questa straordinaria e vasta cultura?
Cesare: Difficile a dirsi quanto sia andato irrimediabilmente perduto dell’antica cultura indiana. Come tutte le culture umane, ancor prima dell’approdo dei coloni europei anche le popolazioni precolombiane del Nord America avevano vissuto periodi di sviluppo, fioritura e declino, di cui troviamo testimonianza in un vasto patrimonio archeologico, nei mounds ad esempio – famoso il complesso di Cahokia in Illinois– i grandi tumuli diffusi sulla vasta regione del Midwest e lungo il bacino dei fiumi Mississippi e Ohio. E come testimoniano anche in modo spettacolare le rovine, alcune davvero imponenti – qui ricordo solo Pueblo Bonito nel New Mexico e Mesa Verde nel Colorado, da visitare! – degli antichi Anasazi del Sudovest. La cui scomparsa, peraltro, è ancora avvolta nel mistero. L’arrivo dell’uomo bianco, con la sua superiorità tecnologica e poi numerica, innescò un profondo cambiamento storico, culturale e ambientale ancora in atto. Pur sottolineando che gli indiani non furono solamente recettori passivi di tale cambiamento ma se ne resero bensì compartecipi, vero è che il loro millenario isolamento geografico e biologico dal resto del mondo, unitamente ad altri fattori, ne determinò sin dall’inizio il triste destino, soprattutto di fronte alle malattie infettive cui non erano immuni. L’avanzata dei bianchi, le epidemie e le guerre di frontiera (anche tra le stesse tribù) portarono a un rapido collasso demografico e la scomparsa o rimozione di intere popolazioni indiane. L’argomento è assai complesso, ma si stima che agli inizi del 1500, nell’America del Nord vi fossero dai sei agli otto milioni di Native Americans. Quattrocento anni dopo, nel 1900, ne erano rimasti meno di un milione. In un libro divenuto famoso, lo storico Russell Thornton (Cherokee) ha parlato di un American Indian holocaust, un vero e proprio olocausto indiano. Sempre in Nord-America, delle circa 500 lingue native parlate all’epoca, dopo cinque secoli, nel 1992, ne erano rimaste poco più di 200. Ci sono tribù, culture e lingue oramai del tutto scomparse di cui conosciamo solo il nome, di altre non sappiamo neanche quello. Questa triste realtà storica, comunque, in un rovesciamento della tesi catastrofista dell’indiano in via di estinzione, cui sopra, oggi deve essere riletta nell’ottica della rinascita e del risveglio nativo-americano. Ricorrendo, se si vuole, alla famosa metafora del proverbiale bicchiere che, rimasto mezzo vuoto, è pur tuttavia ancora mezzo pieno. Il succitato Thornton ha infatti aggiunto la parola survival, sopravvivenza al titolo della sua opera.
Visitando oggi le riserve si possono osservare i grandi passi avanti compiuti in questi ultimi decenni dalle tribù indiane. Molto resta ancora da fare, sopratutto per rimediare allo scardinamento di troppe famiglie native devastate dall’alcol, con i suoi corollari di violenza domestica, disoccupazione, malessere giovanile; tragica eredià della passata politica federale di acculturazione forzata. Oggi le tribù sono impegnate nella lotta a questo triste retaggio del Contatto con l’uomo bianco, attraverso la riaffermazione della propria sovranità, identità, lingua e cultura. Con la riscoperta dei principi e dei valori tradizionali cui si accennava prima e la celebrazione delle cerimonie e riti (vietati un secolo fa dalle autorità federali, poi nuovamene permessi), dalla capanna del sudore alla danza del sole, alle cerimonie nelle kiva, ai riti puberali femminili, questi ultimi, a differenza di quelli africani, assolutamente incruenti ed estremente suggestivi.
Lo storico indiano Donald Fixico ha coniato alcuni anni fa la felice espressione parallel coexistence per illustrare concisamente l’aspirazione degli indiani alla coesistenza con la cultura occidentale come alternativa all’assimilazione; coesistenza vuol dire seguire un percorso parallelo ma distinto, autonomo e indipendente nei limiti oggi imposti dal nuovo contesto storico, politico, economico, e dalla globalizzazione. Come ha scritto il collega Jack Weatherford (Indian Givers: How the Indians of the Americas Transformed the World), gli indiani hanno dato molto al mondo, basti ricordare il mais, la patata, il pomodoro, il cioccolato, il tabacco e sono tutt’ora custodi di un vasto patrimonio sapienziale, specialmente nel campo delle piante ed erbe medicinali, e non solo.
Franco: Se la storia venisse riscritta dai nativi americani quanto sarebbe diversa dalla storia che ci viene raccontata dai libri di storia e insegnata a scuola?
Cesare: Per rispondere a questa domanda occorrerebbero, come suggerisci tu, interi libri riscritti appunto secondo il punto di vista degli indiani. In effetti, questo nuovo filone etnostorico e letterario indigenista (ma definito invece ‘revisionista’ dai suoi critici), era già balzato alla ribalta negli anni Sessanta sull’onda della riabilitazione dell’immagine dell’indiano e del nuovo attivismo politico dell’American Indian Movement (AIM). Oggi esso si è molto consolidato. In occasione del controverso Cinquecentenario Colombiano, ad esempio, il canadese Georges Sioui ha pubblicato la sua proposta di una cosiddetta Amerindian Autohistory, una ‘autostoria amerindiana’.
Un altro autore indiano ha rovesciato la prospettiva eurocentrica della storia del Contatto, suggerendo al suo posto the view from the shore, cioè l’approdo e l’impatto dell’uomo bianco visti attraverso gli occhi degli indiani che lo osservavano appunto “dalla riva”, incurositi e perplessi.
Una prospettiva ribaltata insomma, nei contenuti, nella forma e nel linguaggio: invece che di “scoperta” si parla adesso di “invasione”; e ciononostante furono gli indiani a soccorrere e sfamare i primi coloni, da cui l’importante ricorrenza di Thanksgiving; di contro, il commercio degli scalpi fu introdotto dai bianchi che posero una taglia di diverso valore a seconda che si trattase dello scalpo di uomo, donna o finanche bambino indiano; furono i bianchi a violare ripetutamente i trattati e a derubare gli indiani delle loro terre ricorrendo alla violenza, alla corruzione dei capi consenzienti e al sotterfugio. E furono ancora i bianchi a portare sull’orlo dell’estinzione prima i castori nella regione dei Grandi Laghi e poi i bisonti nelle grandi pianure. “Selvaggi”, chi? Non è forse vero, come ha riconosciuto anche lo stesso Congresso americano, che i Padri Fondatori degli Stati Uniti si erano ispirati alla Grande Legge della Lega degli Irochesi per creare un nuovo sistema di governo repubblicano che fosse a un tempo federale, rappresentativo e garantista dell’autonomia dei singoli Stati? E non è altrettanto vero che i Cherokee, una delle cinque tribù civilizzate (le altre erano i Choctaw, Chickasaw, Creek e Seminole), già tra il 1820-1830 avevano inventato un sillabario utilizzato nelle loro scuole e per stampare addirittura un giornale nazionale bilingue in caratteri Sequoyah –dal nome dell’inventore – mentre i coloni bianchi delle aree limitrofe al loro territorio erano ancora nella strangrande maggioranza analfabeti?
Ma al di là dei fatti storici, sui quali si può sempre discutere, è su un piano più ampio, etico e filosofico, che si sta riscrivendo la storia degli indiani. A questo ci ha pensato un famoso esponente della moderna intellighenzia indiana, lo storico e filosofo Vine Deloria, Jr., (Sioux) recentemente scomparso. Le sue opere hanno un contenuto volutamente provocatorio e un linguaggio tagliente contro i bianchi, ai quali già alcuni decenni fa egli aveva ricordato che Custer Died for Your Sins, che Custer era morto per i ‘vostri’ peccati, e che adesso We Talk You Listen, sono gli indiani a voler dire la loro e i bianchi a dover ascoltare. Ed è anche una critica al secolarismo e alla ‘vuota’ religiosità occidentale perché, ricordava sempre Vine Deloria, God Is Red, la vera religione vicina al Creatore è quella degli i Nativi Americani. Ispirandosi sempre a Red Earth, la Terra Madre nella quale gli uomini rossi affondano le loro radici , Deloria ha attaccato anche il sapere scientifico occidentale, basato sempre secondo lui sulla presunzione di false premesse e teoremi fuorvianti che egli definisce provocatoriamente White lies, falsità, menzogne dell’uomo bianco.
Franco: C’è un insieme di principi generali che l’umanità dovrebbe imparare dalla storia di questi popoli?
Cesare: Ritengo che la risposta a questa tua domanda sia racchiusa, anche con toni talora provocatori, in ciò che abbiamo discusso sin qua; argomenti peraltro approfonditi dagli stessi indiani anche nelle opere cui abbiamo fatto riferimento e in molte altre ancora. D’altra parte, già in diverse occasioni i rappresentanti ufficiali degli indiani d’America sono apparsi davanti alle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali per sensibilizzare il resto del mondo non solo ai problemi dei nativi nord e sudamericani e di altre minoranze etniche, ma per invitare sopratutto gli occidentali a una riflessione critica, ripeto, sui temi cui sopra. Per gli indiani è paradossale che solo adesso, all’inzio del Terzo millennio, l’uomo bianco abbia finalmente preso atto di un dato di fatto tanto incontestabile quanto addirittura ‘banale’, comprovato – come se ce ne fosse stato bisogno — dalla stessa scienza. E cioè che questo nostro pianeta, la Terra Madre, è un’entità finita con limiti imposti dalla sua stessa natura. Ecco quindi l’urgenza di adottare un linguaggio – per gli indiani antico, ma una novità per gli occidentali — che rifletta un modo più sensato ed etico di interagire con nostro il Pianeta Blu e tutto ciò che lo abita: crescita sostenibile, energie rinnovabili, ambiente e biodiversità, solidarietà e umanità, rispetto e valorizzazione delle diversità. Per camminare in bellezza, sempre come dicono i Navajo.
Franco: Quanto il tuo essere italiano ha influenzato il tuo modo di avvicinarti a questa cultura e studiarla?
Cesare: Siamo arrivati alla fine di questa nostra conversazione e come vedi Franco abbiamo tracciato anche noi un grande cerchio. Sì perchè, per rispondere alla tua ultima domanda, devo rifarmi al punto di partenza. É proprio vero che la mia italianità, le difficili esperienze dell’infanzia e prima adolescenza, l’essere stato bersaglio di discriminazione e pregiudizio nel mio stesso Paese, ma anche l’evoluzione dell’interesse giovanile di cui parlavo all’inizio, insieme hanno contribuito a sensibilizzarmi a queste tematiche storiche, etniche e socioculturali. Agevolandomi poi sia nel mio cammino professionale che nell’instaurare profondi legami di amicizia con gli indiani d’America. I valori della famiglia italiana degli anni 1950-1970 sono stati alla base della mia formazione etica e morale, unitamente all’esempio costante della grande fede religiosa di mia madre – di mio padre ho già detto. Come per altri giovani della mia stessa generazione, emigrati anch’essi verso la fine degli anni Settanta (prima quindi della “Master-mania”), egualmente importanti sotto il profilo della formazione scolastica e intellettuale sono stati gli anni del liceo. L’ottima preparazione che ho ricevuto in Italia si è rivelato quindi un ulteriore elemento a mio favore, insieme alla necessaria specializzazione in America, alla passione e all’entusiasmo per la materia, che mi ha consentito di accedere allo Smithsonian. Paradossalmente, con il passare del tempo mi sono reso conto che in una singolare inversione dei ruoli, per gli indiani ero diventato io stesso, un italiano, una sorta di “curiosità” etnografica al contrario: la mia terra d’origine, il mio strano accento, la mia fisionomia, il mio diverso modo di relazionarmi con loro, la condivisione ideale dei valori, la mia italianità, appunto. E che tutto ciò mi aveva aperto le porte di Indian Country.

Alcune opere di Cesare Marino
Cesare Marino
The Remarkable Carlo Gentile
Pioneer Italian Photographer of the American Frontier
Carl Mautz Publishing, 1998
[in inglese] Amazon GoodReads
Cesare Marino and Francis White Lance
The Face of Crazy Horse
The Case for a Tintype Photograph of the Great Lakota Patriot
Venerable Press, 2018
[in inglese] Amazon GoodReads
Paolo Andreani, edited and translated by Cesare Marino and Karim M. Tiro
Along the Hudson and Mohawk
The 1790 Journey of Count Paolo Andreani
University of Pennsylvania Press, 2006
[in inglese] Amazon GoodReads
Cesare Marino
Dal Piave al Little Bighorn
La straordinaria storia del conte Carlo Camillo di Rudio
Tarantola Alessandro Editore, 2010
[in italiano] Amazon GoodReads IBS.it
Ringraziamenti
Ringrazio di cuore Cesare Marino per avermi cortesemente e generosamente dedicato attenzione e tempo rispondendo alle mie domande. Sono certo che il suo entusiasmo per la cultura, la storia e le tradizioni dei nativi americani contagerà i lettori di questo blog stimolandoci ad approfondire questi temi. Ho inserito nel testo numerosi link ai libri e ai film menzionati da Cesare così da rendere più facile individuare le sorgenti di informazione per chi volesse approfondire questi argomenti. Se avete delle domande per me o per Cesare Marino, lasciate un commento e vedremo di rispondere il prima possibile.
La foto di Cesare Marino e quella dei bisonti sono di proprietà di Cesare Marino e sono state utilizzate con l’esplicito consenso del proprietario.
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